Si è tenuta oggi in Aran una riunione con le Confederazioni sindacali rappresentative dei Comparti e delle Aree dirigenziali con all’o.d.g. la proroga dei termini per esercitare l’opzione da parte di chi era in servizio alla data del 31 dicembre 2000, per il trasferimento del proprio TFS in TFR, ai fini dell’adesione alla previdenza complementare.

Si tratta dell’ennesima proroga dei termini, scaduti da ultimo al 31/12/2020, portati con l’accordo di oggi al 31/12/2025.

La CSE non ha sottoscritto tale accordo.

Se fino ad oggi le adesioni da parte dei pubblici dipendenti sono state così scarse (in particolare per le funzioni centrali), le motivazioni non possono essere superate certamente dal prorogare ad libitum i termini, perché è di tutta evidenza che per modificare il trend e rendere effettivamente appetibile il sistema dei Fondi negoziali complementari, vanno affrontate alla radice le grandi criticità esistenti che fino ad oggi hanno portato al fallimento dell’operazione.

Criticità che risiedono primariamente nel quadro di riferimento normativo che ha reso difficoltoso e penalizzante il decollo della previdenza complementare nei settori del lavoro pubblico rispetto al lavoro privato, a partire dal diverso trattamento fiscale e contributivo. Penalizzazione che si va ad assommare all’incredibile differimento temporale previsto per legge per la liquidazione ai dipendenti pubblici del TFS maturato rispetto al collocamento in quiescenza.

Ma anche da una forte incapacità manageriale dei Fondi costituiti per via contrattuale, caratterizzati dal monopolio sindacale di CGIL CISL UIL per quanto riguarda la rappresentanza dei lavoratori all’interno degli organi di gestione.

Tale situazione ha portato negli anni i Fondi in questione a essere assolutamente irrilevanti in termini di adesione rispetto alla platea dei lavoratori pubblici (solo 174.700 su una platea potenziale di 2.300.000, dato fornito in riunione dalla stessa delegazione ARAN), garantendo unicamente poltrone e gettoni di presenza utili a ricollocare “sindacalisti” decotti o di apparato.

La previdenza complementare può essere un’opportunità per incrementare le pensioni, sempre più defalcate in questi anni dal mancato adeguamento al costo della vita e dal diverso calcolo contributivo, ma non può essere certamente l’alibi per smantellare la previdenza pubblica, o avallare la mancata separazione tra previdenza e assistenza che in questi decenni sta portando sempre più colpevolmente ad utilizzare i contributi dei lavoratori per destinarli a coprire nel bilancio dell’INPS le voci di spesa destinate all’assistenza.

Ecco il perché, in coerenza con gli anni precedenti, non abbiamo sottoscritto l’ennesima proroga (che tra l’altro si dimostrerà nei fatti priva di effetti sostanziali) e continueremo a batterci all’interno del tavolo sulla previdenza, attivato nei mesi scorsi al Ministero del Lavoro (crisi di Governo permettendo), per garantire una profonda revisione del sistema pensionistico, che garantisca nuove e maggiori tutele a chi è già pensionato, a chi deve andare in pensione e a chi si affaccia ora al mondo del lavoro, riformando tutti gli istituti (e quindi anche la cosiddetta previdenza complementare), senza però fare alcun regalo al capitale finanziario e alle caste “sindacali.

 

La Segreteria Generale CSE

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